Licenze digitali – di Marco Guastavigna (pubblicato su Insegnare 7/8 – 2005)

 

I materiali intellettuali e culturali collocati su supporto digitale presentano una malleabilità sconosciuta a quelli veicolati da strumenti tradizionali: è infatti molto facile modificarli, interconnetterli con sintassi ipertestuale e riprodurli. Queste loro caratteristiche li rendono con ogni evidenza molto promettenti dal punto di vista pedagogico. La malleabilità del supporto si può infatti tradurre in ampia flessibilità cognitiva, in particolare perché consente strategie di elaborazione intellettuale fondate su perfezionamenti graduali: per esempio, nel caso del testo, su successive riscritture di consapevole miglioramento progressivo. Contemporaneamente, però, la malleabilità  pone il problema della frequenza dei plagi e del rispetto dei diritti d’autore: è sotto gli occhi di tutti, per esempio, come tra le pratiche tecnologiche più diffuse ci siano troppo spesso il copia-e-incolla indiscriminato di pagine Internet ed il reperimento attraverso la rete di musica e film, di provenienza non sempre lecita. Verso le violazioni vengono adottate sempre più di frequente misure repressive, proprio recentemente inasprite dalla legge italiana. È per contro meno nota la riflessione, socioculturale prima ancora che giuridica, che a partire dal concetto di “copyleft” (riferito al software), ha portato alla definizione dell’“opencontent” (contenuti culturali aperti e liberi) ed ha dato vita più recentemente al fenomeno delle licenze di tipo “Creative Commons”. Si tratta di nuove applicazioni del diritto d’autore applicabili a testi, immagini, filmati e musica, volte a renderli liberamente riproducibili e modificabili, e quindi, tra le altre cose, impiegabili anche nella pratica didattica con la certezza di non commettere alcuna violazione, legale o morale. Soprattutto, munendosi di questo nuovo punto di vita, la scuola potrà meglio affrontare, spiegare e spiegarsi il “corto circuito” tra contenuti, diritti di proprietà intellettuale e singoli cittadini utenti della rete messo in moto dall’esplosione tecnologica e mediale del supporto e dei canali comunicativi digitali. E potrà così meglio soddisfare la propria finalità generale, tanto chiara quanto complessa: educare i “giovani cittadini della conoscenza” ad una fruizione consapevole e corretta di tutte le risorse culturali. Queste note sono soltanto orientative: per i necessari approfondimenti rimandiamo alle indicazioni in calce. Il “copyleft” - evidente ed efficace gioco di parole rispetto a “copyright”- nasce e  si sviluppa nella discussione avvenuta negli anni ’80 e ’90 a proposito dei diritti d’uso da applicare al software[1]. Il software commerciale “proprietario” dà infatti all’utente il minimo di libertà: prevede l’acquisto di una o più licenze d’uso, vieta quasi sempre in modo esplicito modifiche e riproduzioni. All’opposto, il software di pubblico dominio è distribuito liberamente e gratuitamente ed è addirittura privo di ogni vincolo relativo all’indicazione del nome dell’autore, tanto che, paradossalmente, qualunque utente può impadronirsene ed imporre vincoli di impiego. Tra le due posizioni si colloca il software libero e aperto[2],  che può essere utilizzato, copiato e modificato da chiunque, a patto che nei vari passaggi vengano indicati gli autori originali e quelli via via intervenuti e siano riproposte le stesse condizioni poste all’inizio della catena di distribuzione. Questo è il caso di piena applicazione del copyleft, che si afferma quindi come declinazione non tanto dei diritti dell’autore, quanto piuttosto delle libertà d’uso del software da parte dell’utente. Questa prospettiva, economica, giuridica e culturale ha trovato un’espressione formale precisa tra 1989 e 1991 nella “GNU General public license” (GPL) realizzata dalla Free  Software Foundation Inc., organizzazione che ha dato vita al processo di revisione ideale, oltre che giuridica e morale, del concetto di copyright applicato agli ambienti digitali. Successivamente il concetto di copyleft è stato esteso alle opere “non software”, dapprima ai materiali di tipo tecnico-funzionale (documentazione e manualistica dei vari programmi e sistemi operativi, per cui venne redatta la GNU Free Documentation License) e poi anche alla sfera della creatività e della conoscenza in generale. All’opencontent è dedicato in particolare il progetto Creative Commons, attualmente in piena e dinamica elaborazione e cominciato nel 2001 intorno all’idea di costruire una comunità di prodotti comunicativi liberi, che si collochino oltre lo spirito di guadagno individuale a cui è connesso ed ispirato il diritto di proprietà intellettuale tradizionale. Attualmente le licenze Creative Commons Public Licenses sono 11, risultato delle diverse combinazioni di quattro opzioni fondamentali: attribuzione della paternità all’autore originario dell’opera; facoltà o meno di realizzare opere derivate e modifiche; possibilità o no di utilizzare l’opera per  scopi commerciali; applicazione alle opere derivate della medesima licenza scelta all’inizio dell’eventuale filiera. Come già accennato, le CCPL sono un fenomeno in espansione, tanto è vero che comincia ad essere possibili effettuare via Internet ricerche volte a trovare materiale rilasciato con queste modalità. Collegandosi ai siti a ciò dedicati, infatti, chiunque può comporre la licenza più adatta alle sue esigenze e ricevere le indicazioni su come renderla attiva per le sue opere intellettuali.

 

In rete per approfondire

 

Ampia bibliografia su copyleft ed opencontent

http://copyleft-italia.it/pubblicazioni/

Free Software Foundation

http://www.fsf.org/

Open Source Iniziative

http://www.opensource.org/

Progetto Creative Commons

http://www.creativecommons.org/

Progetto Creative Commons – sez. italiana

http://www.creativecommons.it/

Creative commons find (motore di ricerc)

http://creativecommons.org/find/

Creative commons search (idem, su Yahoo.com)

http://search.yahoo.com/cc

 



[1] La paternità va attribuita a Richard Stallman, il “guru” del software libero, contrapposto a quello “proprietario”, realizzato, venduto e “difeso” con rigido copyright dalle grandi aziende del settore (Stallman R. Sofware libero, pensiero libero – vol. 1, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003).

[2] Si parla spesso in questo caso anche di software “opensource”, ovvero a codice sorgente aperto. Di questi programmi è infatti disponibile la stesura originale, scritta secondo linguaggi di programmazione tecnicamente accessibili, e quindi modificabili da tutti coloro che li conoscono, con la sola condizione di mantenere il carattere di apertura ad ogni nuovo prodotto della filiera.